mercoledì 25 novembre 2009

40 anni fa ...


Fra il 1968 ed il 1972 i Rolling Stones pubblicarono quattro album in studio che li trasformarono da Beatles-chasing pop ruffians al rango di nobiltà rock internazionale. Lasciatesi alle spalle i ’60 con Beggars Banquet e Let It Bleed ed entrati nella nuova decade con Sticky Fingers ed Exile on Main Street confermarono che finita un’era, gli Stones erano ben decisi a ritagliarsi il proprio spazio in quella successiva. E il disco che al meglio racchiude in se questo percorso è un live dovuto per ottemperare obblighi contrattuali con la casa discografica e che, nonostante il raggiungimento del vertice delle classifiche e l’accoglienza entusiastica di vecchi e nuovi fans, è ora un qualcosa tipo gemma perduta. Il documento del tour evento del North American Winter Tour del ’69, Get Yer Ya Ya’s Out, è la quintessenza degli album concerto della band e con ogni probabilità il più bel disco rock’n roll dal vivo mai inciso. Grezzo, senza costrizioni ed intriso di quella mitologia Stones, trova la band nel tentativo di guadagnarsi il diritto di esistere nel nuovo, post-psichedelico, ordine mondiale. Arricchito il loro repertorio di riffs a la Chuck Berry con il fluorescente libertarismo dei tardi ’60, elevarono il linguaggio del rock ad inimmaginabili picchi di eloquenza. Il risultato fu una perfetta combinazione di artistry ed arroganza – di cui gli Stones ne furono ben consci. Anche perché il disco comincia con un collage di stage announcements e isterismi del pubblico in attesa che sfocia nella sola voce di Sam Cutler che pronuncia il most infamous conceit in rock : “The greatest rock’n roll band in the world … the Rolling Stones!” Arrogante? Senza dubbio ma alla prova dei fatti, accurato e totalmente giustificato. Raramente gli Stones si dimostrarono così bisognosi di successo. Il tour americano fu la prima continuativa apparizione davanti ad un pubblico per il nuovo chitarrista, Mick Taylor, che sostituì Brian Jones nel corso dell’estate. Venne anche visto in prospettiva di rimpinguare le fragili finanze della band, fortemente provate in seguito alle ferite causate dai continui arresti e relativi processi per droga e dalle costose diatribe con la loro etichetta discografica, la Decca. Dopo un’assenza virtuale di quasi tre anni, durante i quali un chitarrista venne licenziato prima di morire, un altro diventò dipendente dall’eroina ed il cantante si dedicò alla recitazione in alcuni film, i Rolling Stones scelsero di ritornare con il più lucrativo rock circus viaggiante mai visto in precedenza. Avevano ogni buona ragione quando, sbarcati all’aeroporto di Los Angeles il 17 Ottobre 1969, si rivelarono pieni di quella distaccata, calma e collettiva tracotanza. Come Jagger ebbe a dichiarare “It’s more of a band now, fucking incredibly hard band”. Molto era cambiato dalle ultime esibizioni, 1966, sul suolo americano. L’America era divisa, fra guerra e lotta per i diritti civili, fra permissivismo e rock revolution. All’inizio dell’estate Elvis aveva portato il rock’n roll nel costoso e “grasso” circuito di Las Vegas. Contemporaneamente una nuova generazione “contro” di artisti suonò davanti a mezzo milione di hippy infangati a Woodstock. Fu quindi tutto meno che sicuro dove i Rolling Stones si sarebbero posizionati nel nuovo ordine del rock mondiale, in particolar modo al loro arrivo quando incontrarono l’opposizione critica riguardo l’alto costo dei biglietti e la rabbia degli scandalizzati guardiani di Dio. Accerchiati, gli Stones gentilmente elusero gli attacchi dei media e lasciarono parlare la musica. Le 18 date sold out del tour si rivelarono un successo senza precedenti. Anche il famoso promoter di San Francisco, Bill Graham, uno dei più feroci critici per l’elevato prezzo dei biglietti, si trovò ad ammettere che “that cunt (Jagger) is a fuckin’great entertainer”.Gli Stones riconquistarono l’America con una giusta e misurata dose di decadenza ed un senso dello spettacolo spinto da quella creatività tipica degli attori di teatro. Ma ci fu comunque una pungente quanto dolorosa coda. In un gesto di bontà e riconoscenza, la band organizzò, con parecchie difficoltà, un concerto di arrivederci, gratuito, da tenersi presso l’Altamont Speedway in California, il 6 dicembre. Fu una decisione fatale. Gli Hell’s Angels, chiamati quale servizio d’ordine per l’evento, reagirono brutalmente nel tentativo di tenere a bada la grande massa di presenti, culminata con l’uccisione a coltellate, di Meredith Hunter, un nero che brandiva una pistola, durante l’esecuzione di Under My Thumb. Fu poca la sorpresa che Gimme Shelter, il film del tour che documentò il tragico accaduto, oscurò l’album registrato al Madison Square Garden di New York meno di due settimane prima. Mentre Get Yer Ya Ya’s Out (il cui titolo sembra abbia origine da un canto voodoo) fa comunque trasparire in parte quella paura e carica emotiva che sfociò in realtà ad Altamont, è anche un sublime esempio della capacità di re-invenzione del rock’n roll; una celebrazione di quanto lontano riuscì ad andare la musica del diavolo senza allontanarsi dal suo originario heartbeat. Come le chitarre dissezionano il Chuck Berry di Carol e Little Queenie con una miscela di riverenza e rabbia, si può essere perdonati se si pensa che queste siano la vera Golden Hour di Keith Richards. E più la band diluisce Midnight Rambler e Street Fightin’Man, più Jagger si dimostra uno sciamano alienato. Ascoltare Mick Taylor entrare nel secondo solo durante Sympathy For The Devil (“Beautiful to hear” disse Jagger) e potrete giurare che sia stato il più dolce strumentista della band. E la sezione ritmica? “Charlie is good tonite, innee?” per dirla alla Jagger la dice lunga. L’ingresso del disco nel territorio del sublime è giustificato dalla inconsapevole sfida dell’essere un album dal vivo. In particolare, data la qualità delle versioni originali, parecchie delle performance uguagliano o sorpassano le loro controparti in studio. Stray Cat Blues spinge l’innato sadismo della canzone ad ancor più elevati livelli di punizione, mentre il tour-de-force di Midnight Rambler fa sembrare quasi esitante l’originale. Live with Me stessa punge in maniera più mordace ed anche Sympathy for The Devil e Street Fightin’Man vengono proposte con addirittura più groove. Forse le sole Honky Tonk Women e Love In Vain concorrono a mantenere a regime la spinta verso l’alto. Il segreto del successo di Get Yer Ya Ya’s Out risiede nel fatto che racchiude la tradizione e la raccoglie in una borsa marchiata “permanent revolution”. Si sono susseguiti numerosi altri album dal vivo dei Rolling Stones ma nessuno di loro è mai riuscito a ripetere la riuscita magia di trasformare cliches in squilli di tromba. Prendete Little Queenie, un bar-room standard tipico della tipologia che gli Stones hanno suonato per oltre 40 anni. Mai più suonata come allora, con linee di chitarra stralciate dal libro mastro del R&B e quindi riproposta con così tanta minacciosità: Chuck Berry con un coltello, il cazzo duro ed uno spinello. Circolano alcune incisioni che tendono a sminuire la veridicità dello strillo “in concert” sulla copertina. E’ ovvio che GYYYO sia stato sottoposto ad un’operazione di pulizia in studio, cancellando alcuni passaggi di chitarra non desiderati, sebbene storie che vogliano una completa ricostruzione in studio si rivelino grossolanamente esagerate. Di fatto, secondo gli odierni standard, il disco sarebbe probabilmente considerato come un poco curato sebbene decentemente inciso bootleg. Ma più importante ancora, a differenza di alcuni successivi live album, Love You Live, Still Life e Stripped, è che l’atmosfera del pubblico mai diminuisce le dinamiche che si concretizzano on stage. Tutti gli ingredienti principali di un classico concerto dei Rolling Stones, colti al picco della loro capacità, qui si ritrovano. E nonostante non si possa vedere, la irritante “presenza” di Jagger – consacrata da una serie di bon mots che da allora sono entrati nella leggenda – è ben presente in tutto il disco. Con gli Stones così in palla, non è un sorpresa che Mick “bust the button of his trousers” quella notte.

1 commento:

  1. Anche per me, il miglior album live della storia del rock. E a leggere il librettino all'interno della edizione superdeluxe del 40ennale del disco, sembra che sia stato veramente un periodo esaltante per chiunque orbitasse intorno alla band. Consumato e riconsumato sul lettore cd, anche se il laser consuma ben poco! ;)
    Moorow

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