martedì 29 settembre 2009

The Rolling Stones


sin dall’inizio i rolling stones hanno diviso opinioni. nessuna sorpresa, in occasione dell’uscita del loro album d’esordio, nell’aprile ’64, quando il daily herald, vecchio quotidiano della sinistra inglese, lo definì disgustoso mentre il new musical express avvertì i lettori che sarebbe stato il miglior disco d’esordio di sempre elogiandone la frenetica, brutale magnificenza. il loro manager andrew loog oldham amava questo tipo di conflitto e lo gestì con cinica lungimiranza. controversia era anche la chiave di lettura della frase riportata sul retro della copertina “The Rolling Stones are more than just a group – they are a way of life” . ci giocò su ancora convincendo la decca a pubblicare sulla front cover solo una foto dei 5 rivolti verso la macchina fotografica, senza riportare il nome del gruppo. lo scatto venne studiato ancor più dell’album stesso che coglieva i nostri alla fine del loro apprendistato e all’inizio del loro primo significativo periodo di transizione. l’autunno precedente oldham, notoriamente, chiuse in una stanza del loro appartamento in mapesbury road, brondesbury, a nord di londra, mick e keith affinché scrivessero una canzone anche se i due non avevano nulla che potesse funzionare in un contesto di standard di R&B. tell me era l’unica composizione a firma jagger / richard a disposizione. sebbene fosse un timidamente lugubre e al tempo stesso innocente lamento, rappresentò un’indicazione sul futuro della band. il resto dell’album era invece intriso di storia. oldham conosceva pochissimo di registrazione ma lo produsse in quanto era sua fissa diventare come phil spector. dimostrò fegato e attributi, si sbarazzò della vecchia guardia della casa discografica e riuscì a portare a termine l’album sebbene dovesse imparare ad utilizzare il revox due tracce del regent sound, in denmark street – definito da shel tiffany, uno dei top producer dei sixties “un buco di merda con cartoni per le uova alle pareti”. bill farley, ingegnere al regent, disse “quando arrivarono, il 4 gennaio 64, non avevano nessun idea di arrangiamento. suonarono finchè non trovarono il giusto feeling. non ci fu nessuna sovraincisione e neanche retake” non si potevano permettere né l’affitto né ne avevano il tempo con un concerto praticamente ogni sera. il loro successo derivò dal calcolo di giuste mosse in previsione futura e dal suonare guidati da un istinto viscerale. sostanzialmente presero il meglio dei loro live set, il che significava black music, R&B. ma come potevano conciliare jimmy reed, slim harpo, muddy waters, rufus thomas e rendersi credibili? cioè non essere dei normali ragazzi bianchi di londra che rifanno i ragazzi neri americani e confrontarsi invece con storie di razzismo, ghetti, raccoglitori di cotone e schiavitù? l’impossibile ma veritiera risposta è che attraverso passionali e non sempre fedeli copie, trovarono se stessi. sicuramente quando jagger intona “don’t you know that I love you” all’inizio di honest I do, sincero e tuttavia dileggiante perché, sebbene fosse già una star, non aveva altra modo che ammettesse vulnerabilità. alla stessa maniera quando charlie watts imposta il suo oscuro beat con un andamento scanzonato, di chi la sa lunga per I’m a king bee.
in maniera totale quando inciampano nella feroce frustrazione che muddy waters canta e si cimentano in una I just want to make love to you che sprizza testosterone da tutti i solchi. l’averla suonata a velocità doppia la rende solamente loro e ancora suda. suonano come uomini, non ragazzi e suonano come sesso, forse amore, sicuramente non come una storia romantica. le loro incursioni nel soul non ricevettero molto credito al tempo. vero è che can I get a witness, di marvin gaye, era l’idea di oldham quale possibile singolo. jagger non ne conosceva le parole e fu spedito di corsa a comprare lo spartito in savile row. Ma con il piano di ian stewart molto incazzato, i rolling stones come vittime petulanti – “it hurts me so inside to see you treat me so unkind” – si dimostrano unlovely, ma comunque sempre convincenti come marvin gaye stesso e i maestri della motown . lo stesso avviene per you can make it if you try; la loro versione mette da parte quella di gene allison, cantante gospel, che la incise originale nel ‘57 preferendo la sporcizia e l’incertezza (perché è questo quello che conoscevano).
il rock’n roll nero presentò meno problemi, data l’ossessione di richard con chuck berry ed i riff di bo diddley. si avverte una spensierata freschezza nel loro impasto di chitarre, le accelerate di route 66 e carol (e mona sul vecchio lp uk). allo stesso modo, not fade away, il singolo uscito a febbraio, che rimpiazza mona sul cd odierno. l’intro di chitarra di richard con l’acustica è qualcosa che fa pensare che les paul avrebbe potuto non aver bisogno di elettricità. quindi il tipico timing a la bo diddley, con l’armonica di brian jones sia a riffare che a lanciarsi in assolo, l’incessante batti mani e un jagger bulletto imbronciato – “I’m gonna tell you how it’s gonna be” . parlando del singolo, oldham disse che ci aveva suonato anche phil spector. era una balla. ma spector e l’amico gene pitney vennero veramente in aiuto l’ultimo giorno di sessions, il 4 febbraio. avendo già conosciuto la band, a gennaio, per via del tour con le ronettes, piombarono al regent sound per un saluto. si trovarono nel bel mezzo di una crisi. l’album era abbondantemente sotto i 30 minuti. pitney tirò fuori una bottiglia di cognac. spector prese jagger e una chitarra e si mise sulle scale. dieci minuti più tardi tornarono con little by little – shame shame shame di jimmy reed brutalmente scopiazzata – e in mezz’ora incisero un R&B, un piede nei campi di cotone, l’altro in un pub di londra. pitney suonò il piano e spector la famosa moneta infilata nella ormai vuota bottiglia di cognac o maracas come riportato sulla copertina. sollevati, passarono il tempo a improvvisare sulla jam che chiudeva i loro concertì – si usava molto jammare ai tempi, dimostrava che “the band could really play” . venne fuori dagli stessi accordi della loro cover di marvin gaye, come candidamente confessato nel titolo, now i got a witness.
l’album di debutto dei rolling stones non potrebbe mai essere confuso con un disco di oggi. è più in sintonia con le incisioni di alan lomax nel mississippi che, per dire, con l’ultimo dei radiohead. crude equipment produced a raw sound. una band giovane che non potendo ancora esprimersi attraverso canzoni da loro scritte, guardò verso l’america nera per trarne ispirazione e sostanza musicale. ma la loro focosa attitudine li portò a rileggerla con un oscura profondità e verità che mai si era ascoltata da giovani inglesi.
“il primo album può essere incredibile” disse una volta keith “ tutta quell’energia … incredibile! e quasi triste in un certo senso, perché già sai che è una once-ever experience. lo ascolto ancora …”